Le leggende di Venezia nascoste tra storia, acqua e arte

Alle spalle della tanto amata Venezia, si nascondono antichi misteri e curiose leggende che nel tempo sono entrate a far parte della storia della città stessa: storie d'amore, racconti terrificanti, sospette presenze ultraterrene, insolite apparizioni ma anche strane sparizioni sono solo alcuni dei racconti appartenenti alla parte segreta di Venezia che, forse, non tutti conoscono.

Verità o leggende?

Il prezzo da pagare per la costruzione del Ponte di Rialto

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Ai tempi della costruzione di quello che oggi si può definire il ponte più famoso della città veneziana, gli uomini che lavoravano erano disperati: il ponte progettato da Antonio da Ponte era un'opera ingegneristica eccessivamente complessa, presentandosi in un'unica campata che pareva difficile assai da far reggere in piedi. Piccoli crolli impedivano sovente il regolare prosieguo dei lavori. Si aggiungevano poi le difficoltà legate ai fondi che iniziavano a scarseggiare siccome il costo diventava gradualmente più elevato. Siccome i crolli capitavano sempre di notte, Antonio  decise di nascondersi vicino al cantiere per scoprirne la causa, in quanto sospettava che ci fosse un maleficio sulla zona di costruzione. Al frastuono del crollo del ponte sentì un’agghiacciante risata proveniente alle sue spalle: girandosi, vide un uomo alto e coperto da un lungo mantello nero che affermò che nessun essere umano sarebbe stato in grado di costruire un ponte sul Canal Grande a meno che non fosse disposto a pagare un prezzo molto alto. Antonio, desideroso di concludere il lavoro, rispose che avrebbe dato la sua anima, ma il misterioso uomo disse che avrebbe voluto l’anima della prima persona che sarebbe passata sul ponte una volta terminato. L'architetto accettò, aveva bisogno di concludere il lavoro commissionato dalla Serenissima per poter mantenere sua moglie e il primogenito in arrivo. Come concordato, il ponte non crollò più e non dimenticando della promessa fatta, fece portare dai suoi operai un gallo con l’intento di liberarlo sul ponte per permettergli di attraversarlo per primo, come chiesto dal diavolo. Il diavolo non aveva alcuna intenzione di esser imbrogliato da un essere umano, quindi si trasformò in un manovale e corse a casa di Antonio, con l’intento di avvisare la moglie di un’incidente accaduto al marito sul ponte. La donna corse sul luogo e dopo averlo attraversato si accasciò al suolo perdendo la vita. Il diavolo non solo prese l’anima della prima persona che passò sul ponte, ma lo punì  Antonio prendendo anche quella del figlio nel grembo. Da quel giorno l’anima del bambino non battezzato vagò sul ponte e chi passava sopra o sotto su una gondola, sentiva piangere e starnutire. Tutti avevano timori conoscendo la storia e si affrettavano a terminare il tragitto, fino a quando un gondoliere rispose “salute” allo starnuto del neonato che, dopo aver ringraziato, potè abbandonare quel luogo, come se avesse bisogno di un gesto di attenzione e compassione, che non aveva mai ricevuto non essendo mai nato.

Ma pare che le anime della giovane donna e di suo figlio ancora vaghino sul ponte nelle fredde notti di inverno...

Lo “sguazeto alla Biasio” al sapore dell’orrore

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Sul lato destro del Canal Grande, presso la riva di Biasio, un tempo lontano lavorava Biagio Cargnio soprannominato “Biasio”, un rinomato cuoco, in una locanda nella quale serviva lo “sguazeto ala bechera”, ossia un piatto di carni miste condite con cipolle e sugo di pomodoro. Il piatto era amatissimo dai veneziani e durante gli orari di pranzo e cena il piccolo posto era sempre frequentato. Solitamente il guazzetto alla veneziana era preparato, e viene preparato ancor oggi, con carne di maiale. Ma Biasio si definiva un’artista e come tale ci teneva a mantener segreta la ricetta con cui deliziava i palati dei numerosissimi veneziani che affollavano la sua bottega. Mentre la sua fama accresceva e la sua bontà conquistava anche i più nobili, in città avvenivano strane sparizioni di bambini: nonostante le ricerche dei gendarmi, i fanciulli non trovavano più la strada di casa. Un giorno, un onesto barcaiolo affamato, si diresse presso Biagio per gustare il suo amato piatto, e all’interno dello stesso trovò qualcosa che non avrebbe dovuto trovare. Inizialmente pensava fosse un osso, e tirò un sospiro di sollievo per non essersi spezzato un dente, ma quando tirò fuori dalla bocca il boccone sospetto, notò che non si trattava di un osso bensì di un dito presumibilmente di un bambino. Impaurito e disgustato, lasciò il locale, e durante le ore successive avvisò le autorità che le stessa sera perquisirono le cucine e il retrobottega, trovando i resti di numerosi bambini impiegati per rendere unico il suo piatto. Biasio dopo esser stato arrestato confessò al giudice la verità: la carne tenera dei bimbi, lasciata a macerare per ore nel vino e spezie varie, riusciva a garantire un sapore delizioso e un guadagno maggiore. Non fu mai precisato quanti bambini avesse ucciso né il modo con cui se li fosse procurati. Dopo il processo, Biasio fu condannato a morte: fu legato a un cavallo e trascinato dal carcere fino alla sua bottega, dove gli furono mozzate le mani. Da qui fu poi portato in Piazza San Marco e decapitato tra le due colonne della riva. Il suo corpo fu fatto tagliare in quarti, e ogni quarto fu esposto in quattro diversi luoghi della città. I giudici della Serenissima hanno voluto fargli provare quel che lui stesso aveva inflitto alle sue piccole vittime.


Lo spirito gentile di Palazzo Grassi

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Il Palazzo Grassi è uno degli edifici più noti di Venezia e, dal sestiere di San Marco, si affaccia sul Canal Grande. Dietro la sua grandezza e bellezza estetica, il nobile palazzo costruito per ultimo dopo la caduta della Repubblica di Venezia nasconde una leggenda misteriosa: pare sia la dimora di una giovane ragazza che morì in circostanze misteriose cadendo dalla balaustra di uno dei balconi della corte interna dopo aver subito una violenza. Le circostanze del decesso sono incerte, in quanto non si è mai saputo se fosse stato un suicidio o un omicidio. Lo spirito di questa giovane donna, secondo alcune testimonianze, non reca disturbi, ma con un tono di voce gentile sussurra all’orecchio dell’individuo il proprio nome. Tra le testimonianze, c’è anche quella di un ex dipendente del Palazzo, che si occupava della sicurezza notturna: durante il solito giro di ricognizione sentì urlare improvvisamente di fermarsi e, dopo averlo fatto, puntò la luce davanti a lui e tirò un sospiro di sollievo. La guardia notturna era solita girare per i corridoi e per le stanze in totale oscurità, per mimetizzarsi nel buio e soprattutto per la conoscenza precisa del Palazzo, ma se non fosse stato per lo spettro della giovane fanciulla, sarebbe caduto in una voragine aperta dagli operai per i lavori di ristrutturazione.

Il fantasma dei Giardini di Castello che ha giurato eterna fedeltà

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L’origine di questa leggenda, rispetto alle altre, è piuttosto recente. Riguarda la statua di Giuseppe Garibaldi, sita nel Viale omonimo nel sestiere di Castello, posizionata all’ingresso dei Giardini della Biennale presso la Chiesa di San Francesco di Paola. Alle sue spalle, posto alla base della collina sul quale lo stesso si erge, si trova un’altra figura: un garibaldino di nome Giuseppe Zolli, che aveva giurato di essere pronto a guardargli le spalle anche dopo la sua morte. Nel 1921, un signore veneziano di nome Vinicio Salvi, come di consueto si recò nei vicini Giardini per poter raccogliere lumache, ma quel giorno ricevette una violenta spinta nei pressi della statua che lo fece cadere al suolo: l’unica cosa che notò fu un’ombra rossa che si allontanava. Inizialmente la sua testimonianza non fu presa sul serio, ma simili episodi si verificarono ancora, anche a gendarmi che erano di pattuglia dopo le numerose segnalazioni. Un anziano residente, che notò anch’egli la misteriosa ombra rossa, riuscì a distinguere i connotati di Giuseppe Zolli, deceduto poco tempo prima, che prese parte alla spedizione dei Mille e giurò fedeltà e protezione al suo condottiero. Fu cosi che gli abitanti del quartiere decisero di erigere una statua in suo onore posizionandola alle spalle di Garibaldi, in maniera tale che potesse sempre vegliare su di lui come gli aveva promesso: da quel momento il fantasma non si fece più vedere.

Il mendicante che scolpì la storia del levantino

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Cesco Pizzigani era uno dei più abili scalpellini Veneziani dell’epoca. Con le sue mani creò alcuni dei più affascinanti e preziosi giochi prospettici della facciata della Scuola di San Marco, sita nel sestiere di Castello, che la resero celebre in tutta Europa. Pochi anni dopo, agli inizi del 1500, la moglie dell’artista si ammalò e Cesco fece di tutto per guarirla, vendette anche la sua bottega, ma la moglie morì lasciando il marito nella miseria. Senza più nulla in tasca si ritrovò a mendicare sul portale della Scuola che egli stesso aveva aiutato ad edificare. Talvolta Cesco con un vecchio chiodo esercitava la sua vecchia arte ai lati del portone, incidendo le sagome delle navi che poco distanti approdavano. Secondo la leggenda la sua vita s’incrociò con un levantino, tormentato dal conflitto interiore d’essere per metà veneziano e per metà levantino e quindi non sempre accettato da entrambe le comunità. Egli sfogava la propria frustrazione picchiando la madre che sopportava gli sfoghi del figlio, amandolo ugualmente più della sua stessa persona. Una sera però il levantino fu sopraffatto dall’ira e accoltellò la propria madre strappandole letteralmente il cuore dal petto. Terrorizzato dal gesto compiuto il giovane fuggì continuando a tenere il cuore in mano. Sul primo gradino del ponte antistante alla Scuola di San Marco inciampò, cadde e perse il cuore della madre. Egli sentì una voce uscire che diceva: “Figlio mio, ti sei fatto male?”. Ormai psicologicamente instabile, il giovane si suicidò gettandosi tra le onde di fronte al cimitero vicino: si racconta che sia ancora possibile sentire i suoi lamenti nel campo, mentre cerca il cuore della madre per sentire il calore del suo amore durante le freddi notti d’inverno. Cesco, che vide la scena, decise di renderla indelebile: sul portale, tra i profili delle navi, è possibile vedere una figura con un turbante in testa e che regge in mano un cuore umano.

Le statue di pietra di Campo do Mori

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Il Campo do Mori, sito nel sestiere di Cannaregio e a due passi della Casa di Tintoretto, è teatro di una curiosa e singolare leggenda, riguardante quattro statue in pietra incastonate nel muro di Palazzo Mastelli del Cammello (chiamato così per la presenza di un cammello sulla sua facciata): quest’ultimo e altri edifici che si affacciano sul Campo vennero costruiti dalla famiglia dei Mastelli, giunta a Venezia nel 1113 dalla Morea (corrispondente al Peloponneso), e quindi definiti "Mori". La famiglia era formata da tre fratelli: Rioba, Sandi e Alfani, i quali commerciavano sete e spezie. Erano sempre pronti a truffare i propri clienti vendendo merce di scarsa qualità a prezzi molto elevati. Tra gli affari praticati dai fratelli c'era anche la gestione di una banca, attraverso la quale fu truffata una signora veneziana molto religiosa che pregò Santa Maria Maddalena di scagliare la sua maledizione sui tre mercanti. “Possa il Signore trasformarci in pietra se questa non è la miglior stoffa di Venezia” dissero i fratelli alla Santa Maria che si presentò a loro nelle terrenee vesti di una cliente. Li prese in parola: dopo quest’ultima affermazione, infatti, i tre mercanti si trasformarono immediatamente in pietra, insieme al servitore di cui nessuno conosceva il nome. Nel corso del XIX secolo la statua del Sior Rioba, la più famosa delle quattro dovuta anche alla nascita nel 1848 di un giornale satirico chiamato proprio “L'ombra de Sior Antonio Rioba”, perse il naso che gli fu rifatto con un pezzo di ferro improvvisato. Nacque da qui una seconda leggenda: chiunque avesse sfregato il naso, avrebbe avuto fortuna.

Provare per credere!

Il diavolo della Casa dell’Angelo

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Alle spalle di Piazza San Marco e affacciato su un piccolo canale si trova una casa legata ad una leggenda piuttosto curiosa. L’abitazione prende il nome di Ca’ Soranzo, anche se è comunemente identificata come “Casa dell’Angelo”, in quanto provvista sulla facciata di una statua di un angelo con un piccolo foro sopra la testa. Intorno alla metà del XIV secolo, vi abitava Iseppo Pasini, un avvocato della Curia del Doge che si arricchiva lucrando sulle spalle della povera gente. Egli aveva in casa una scimmietta ammaestrata che si occupava delle faccende domestiche e di cui andava molto fiero: era del tutto ignaro che la scimmia fosse il diavolo in persona, che voleva appropriarsi della sua anima. Fu il frate Matteo da Bascio a scoprire la doppia identità della scimmia, il quale, recandosi al Ca’ Soranzo per un pranzo notò che la scimmia scappò, rintanandosi sotto al letto. Il frate si insospettì e intimorì la scimmia di lasciare l’abitazione. La stessa parlò e disse che non avrebbe potuto in quanto gli era stato ordinato di prelevare l’anima del proprietario disonesto, molto devoto alla Vergine Maria: ogni sera Iseppo Pasini dedicava alla Santa una preghiera, e la scimmia si sarebbe appropriata della sua anima nel momento in cui si fosse dimenticato di farlo, ma non capitò mai. Il frate però trovò un compromesso: ordinò alla scimmia di uscire subito dalla casa facendo un foro sul muro, buco che sarebbe servito come eterna testimonianza dell’accaduto. Tornato a tavola rimproverò Pasini per le sue malefatte, rendendo tutto più teatrale strizzando un lembo della tovaglia dal quale uscì del sangue, quello di tutte le persone vittime degli imbrogli dell’avvocato. Questi scoppiò in lacrime, pentendosi. Tuttavia rimaneva un buco alla parete della casa, dal quale il demonio poteva rientrare da un momento all’altro. Padre Matteo suggerì a Pasini di difenderlo con l’immagine di un angelo affinché il diavolo si mantenga lontano da Ca’ Soranzo.

La strega che voleva rubare l’anima della figlia di Tintoretto

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Al numero civico 3399 del sestiere di Cannaregio, in fondamenta dei Mori, troverai la casa del pittore Jacopo Robusti, detto il Tintoretto. Edificata nel corso del quattrocento in stile gotico, l’edificio si presenta alto e stretto con una caratteristica trifora al primo piano nobile che si unisce ad altri due elementi che contraddistinguono la facciata della casa: una lapide che ricorda l'abitazione del grande pittore veneziano, ed una piccola statua in marmo, rappresentante Ercole con una clava. Questa statua fu costruita dopo un avvenimento che capitò a Marietta, la figlia maggiore del pittore, che era prossima alla prima comunione. All’epoca c’era l’usanza di ricevere l’eucarestia ogni mattina per dieci giorni presso la cappella del convento di Madonna dell’Orto e il primo giorno, Marietta, incontrò una signora anziana che le disse che se avesse voluto diventare “come la Madonna”, avrebbe dovuto conservare in un luogo sicuro le ostie anziché deglutirle e che avrebbe ricevuto una sorpresa il decimo giorno. Marietta conservò le ostie nel giardino della propria abitazione, riponendole in una scatola dietro l’abbeveratoio degli animali. Un giorno, non avendo modo di prendere la scatola a causa della pigrizia degli animali che non si spostavano, confessò il suo incontro al padre, che conosceva questa pratica magica e maligna con la quale le streghe rubavano le anime. Il Tintoretto portò quindi le ostie in chiesa e chiese a Marietta di aspettare l’anziana alla finestra per poterla invitare in casa. Il decimo giorno la strega non tardò e appena entrò in casa fu colpita a bastonate dal pittore: dopo i primi colpi si trasformò in un gatto per poter fuggire ma data l’impossibilità, lanciò un grido disumano e, avvolta da una nube nera, si scagliò violentemente sulla parete per poter riuscire a scappare, lasciando un foro nel muro. Tintoretto, per evitare un suo ritorno e anche per ricordarle quello che le era capitato, fece murare il buco con una statua di Ercole a guardia delle pareti domestiche.

La Pietra Rossa nel quale è sprofondato il male

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Tra Corte Nova e Calle Zorzi, troverai il Sotoportego della Corte Nova sotto il quale è presente un’insolita pietra rossa. Nel 1630 una donna di nome Giovanna, abitante nel Sestiere di Castello, ebbe la visione della Madonna che le raccomandò, per vincere la peste che in quel periodo si stava rapidamente diffondendo, di dipingere un quadro rappresentante la Sua immagine insieme ai Santi Rocco, Sebastiano e Giustina, e di esporre infine lo stesso alla parete del Sotoportego della Corte Nova: il sestiere rimase indenne dal terribile morbo, che all’improvviso si dileguò, così come sparì il quadro quasi miracoloso. Ma a terra, tra le solite pietre, ne troverai una di colore rosso, all’interno della quale si dice che la peste (intesa come una figura maligna) sia sprofondata come voluto dalla Madonna. Da allora i Veneziani che camminano nel Sottoportego si guardano bene dal calpestare questa pietra rosso considerata portatrice di sfortuna e disgrazie. Alcuni assicurano, invece, che calpestarla porti denaro e amore.

Il fantasma di una sirena che amava anche dopo la morte

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La leggenda ha luogo nel Sotoportego dei Preti nel sestiere di Castello, che ospita un piccolo cuore in mattone rosso. Il sottopassaggio è un luogo abbastanza frequentato in quanto, le coppie che toccano insieme il cuore, sperano che la leggenda locale sia vera e che quindi il loro amore resterà eterno. La leggenda narra che un pescatore, di nome Orio, soccorse in mare una bellissima sirena chiamata Melusina. Dal loro incontro nasce una profonda storia d’amore: Orio chiese alla sirena Melusina di sposarlo e lei acconsentì con la promessa, però, di non incontrarla il sabato nei giorni prima delle nozze. Orio non rispettò la richiesta: il terzo sabato la curiosità ebbe la meglio su di lui e al solito luogo d’incontro, il pescatore non trovò la sirena, ma un enorme serpente di mare che si rivelò Melusina stessa, colpita da un maleficio. La maledizione la trasformava in un mostro ogni sabato e l’unico modo per mettere fine all’incantesimo era il matrimonio. Orio decise di sposarla comunque: la sirena Melusina si trasformò in una donna e partorì tre figli, ma nonostante anni di gioia, la donna morì a causa di una malattia incurabile. Rimasto solo, Orio continuò a lavorare per mantenere la famiglia, ma al ritorno dal mare trovava sempre la casa ben in ordine. Insospettito, decise un giorno di tornare prima per ringraziare chiunque lo stesse aiutando in segreto; ma ad aspettarlo non trovò una persona, ma un serpente. Spaventato e preoccupato per l’incolumità propria e dei figli, Orio uccise istintivamente l’animale. Solo nei giorni successivi, trovando la casa disordinata al suo ritorno, comprese di aver ucciso nient’altro che Melusina. Il cuore di mattone rosso posto nel sottopassaggio vuole ricordare e celebrare questa tragica, ma autentica storia d’amore.