Venezia 77 si apre all'insegna delle emozioni.

L'edizione 2020 della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica La Biennale di Venezia, nella sua edizione più difficile, si apre con l'omaggio allo straordinario Maestro Ennio Morricone, scomparso il 6 luglio scorso. In una Sala Grande trasformata in "un cielo trapunto di stelle" gli occhi si riempiono delle immagini che scorrono sullo schermo e che raccontano la lunga storia d'amore tra il Maestro e il cinema internazionale, mentre riecheggiano nell'aria le note del Tema di Deborah di C'era una volta in America magistralmente eseguite dall'Orchestra Roma Sinfonietta diretta dal figlio Andrea. Tutti in piedi, uniti da un lungo e caloroso applauso.

La Mostra parte da qui. Con un Red Carpet chiuso da alte protezioni che lo isolano dalla città per evitare assembramenti su cui i divi si possono mostrarsi solo ai fotografi, in una Sala in cui tutti sono mascherati - ma in fondo Venezia è il regno delle maschere, no?! - dove il distanziamento fisico è lampante. Ma io ho scelto di vedere una sala mezza piena, anziché una sala mezza vuota. E' da qui che occorre ripartire. Ed è questa ripartenza il tema che ha caratterizzato la Cerimonia di Apertura: il piacere di essere ritornati in sala dopo un lungo periodo in cui ognuno di noi ha pensato che questo momento non sarebbe più arrivato, un desiderio insperato fino a pochi mesi fa. Eppure, siamo ritornati a godere del buio della sala, finalmente "a respirare la stessa aria seppur filtrata", immergerci nelle immagini e nei suoni, in quello che è il potere immaginifico del cinema!

La serata è stata presentata dalla madrina Anna Foglietta. Splendida e sicura di sé, emozionata quel tanto che basta ma pienamente padrona dei gesti e delle parole, soprattutto di quelle del suo lungo monologo di apertura.  Un inno al "fare", omaggio a chi ha voluto e ha permesso a questa edizione della Mostra di arrivare fin qui, di esserci e di esserci per tutte le date stabilite. Un inno alla vita, quello rivolto dall'attrice, "nonostante tutto quello che ci capita intorno, nonostante questo vortice che ci vuole trascinare verso un baratro" per cui l'importante è lottare per sentirsi vivi "che significa tornare ad essere umani, lottare con tutte le nostre forze verso l'abbrutimento intellettuale. E' stata dura, lo è ancora adesso. Ma il futuro non è scritto. Questa volta noi abbiamo la facoltà, e non solo, abbiamo il dovere di immaginarlo e di costruirlo il mondo che verrà."

Particolarmente sentito anche il discorso del Presidente di Giuria Cate Blanchett, semplicemente eterea, che ha esordito con una esclamazione in italiano "Ce l'abbiamo fatta!", ricordando poi come il cinema siano stato salvifico e dilettevole nei lunghi mesi di lockdown "isolati nelle nostre bolle", ma scevro della "sua componente vitale che ritroviamo qui stasera: estranei che si radunano al buio pregustando un'esperienza collettiva."

La Cerimonia è poi proseguita con la consegna del Leone d'Oro alla Carriera all'attrice Tilda Swinton, presentatasi sul Red Carpet con una speciale e preziosa mascherina intagliata come una farfalla, che in italiano ha rivelato di essere "molto fiera e felice di essere qui". Ha poi dimostrato tutta la sua riconoscenza per l'importante riconoscimento assegnatole: "Grazie per il mio leone con le ali. Il miglior dispositivo di protezione personale per l’anima che possa immaginare. Viva Venezia. Cinema, cinema, cinema! Wakanda forever! Nient’altro che amore". Ha chiuso poi con un personale omaggio all'attore e amico Chadwick Boseman, scomparso da poco.


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La serata si è poi conclusa con la proiezione del film di apertura, Lacci di Daniele Lucchetti, con un cast eccezionale che va dai protagonisti Luigi Lo Cascio, Alba Rohrwacher, Silvio Orlando e Laura Morante, ai co-protagonisti Adriano Giannini, Giovanna Mezzogiorno e Linda Caridi. La sceneggiatura, tratta dall'omonimo romanzo di Domenico Starnone, racconta la storia di una coppia, Aldo e Vanda, che in trent'anni di matrimonio più che costruire una vita felice pare abbiano alzato un muro che li intrappola in una falsa serenità, che li aggroviglia come lacci che diventano un cappio che impedisce di respirare, ma che tengono stretti i legami familiare. E sono gli stessi lacci simbolo di insegnamento e tradizione, come un padre che insegna con amore ai propri figli a fare il nodo ai lacci delle scarpe, come per fare i nodi agli eventi importanti della vita. Aldo è un giornalista che lavora Roma, dove alla radio racconta di libri, Vanda è una maestra elementare. I due vivono a Napoli insieme ai due figli, Sandro e Anna. La trappola improvvisamente esplode a causa del tradimento di lui con la giovane Lidia, che seduce con la sua leggerezza allentando quel peso delle responsabilità di una stabilità casalinga su cui ha sempre puntato Anna, e si tramuta in una vera guerra, dialettica soprattutto, dove rimangono imbrigliati soprattutto i figli: discussioni e scenate palesano una teatralità verbale ed un dinamismo dialettico che bene si contrappone alla stasi fisica che limita molto lo spazio alla cucina e al salotto. In questi continui contrasti a vincere è la figura femminile, più forte nella sua acidità e nella ricerca di una vendetta che palesa invece delle fragilità, a discapito di un universo maschile che ne esce un pò ammaccato: Aldo viene rappresentato come un vigliacco, un uomo inerte immobilizzato nell'impossibilità di riuscire a fare, a capire, a prendere decisioni, perso in balia degli eventi che non riesce a dominare, lasciandosi vivere piuttosto che vivere. Quel briciolo di personalità che dimostra è costruita, fasulla, non gli appartiene, perchè eretta sui pensieri altrui, quelli degli autori che lui predilige, da Fitzgerald a Gianni Rodari. Sullo sfondo una Napoli che è popolare solo in apparenza, ma nella sostanza Lucchetti ci presenta come una città colta e borghese, priva del suo caratteristico dialetto, lasciando echeggiare tra i suoi vicoli i dialoghi letterali, anche se violenti, urlati, spesso sbraitati dei due protagonisti. Inevitabile la separazione che diventerà poi inspiegabile riconciliazione. Ma è una "riconciliazione apparente, il falso perdono, il dramma della menzogna, dell’inganno e della reticenza", come ha spiegato il protagonista Luigi Lo Cascio, che smorzano i toni ma non le tensioni anche a distanza di trent'anni: lei rimane la stessa donna acida, lui lo stesso vigliacco che sopporta ma che riesce a sovvertire l'enfasi dialettica che ha accompagnato tutto il film nella parte finale, quando ormai vecchio e stanco chioserà "per stare insieme bisogna parlare poco". A fare le spese di questa guerra gelida tra i due saranno i figli che diventati adulti decideranno di liberarsi finalmente di quel clima di belligeranza in cui sono stati costretti a vivere.

Il film, che si muove su due piani temporali distanti trent'anni, dove i protagonisti danno prova di eccellente interpretazione, non è solo un tortuoso labirinto di pensieri e parole, un groviglio dialettale ma anche un giallo in cui degli interrogativi si fanno protagonisti e pesanti come macigni: cosa spinge una coppia, dopo un tradimento, un allontanamento e tanto dolore a ritornare insieme? Perchè pur non amandosi più decidono di ritornare ad una vita di coppia? E il giallo si infittisce: che ha messo a soqquadro la casa? Dove è sparito l'amato gatto? La scelta di Lucchetti è quella di costruire una storia senza però sottolineare, affidare ad una scena madre l'apice della narrazione. L'altalenanza di dialoghi urlati con scene silenziose dove il suono lascia spazio al potere dell'immagine, dove il concreto diventa accennato, riesce a tenere alta la tensione della visione, sfiorando il cinema d'autore. 

Il film è stato accolto con calore dal pubblico ma tiepidamente da una parte della critica che non ha perdonato a Lucchetti l'aver snellito la fitta trama delle pagine scritte da Starnone. Viene rimproverata aspramente la semplificazione e una sorta di schematizzazione che va a discapito di sfumature che avrebbero amplificato la tensione della storia. Una semplicità che sceglie una tagliente dialettica a discapito di più interessanti percorsi psicologici che darebbero un significato più profondo alle azioni e alle scelte dei protagonisti, che arrivano a ridursi ad entità semivuote capaci chi solo di subire, chi di vendicarsi ad ogni costo: e così la psicologia diventa solo psicologismo che non riesce a dare le risposte giuste a domande precise sull'amore e sui rapporti. Sotto tiro anche i continui passaggi da un piano temporale all'altro che toglierebbero linearità alla narrazione, imponendo una maggiore attenzione alla visione.

Ma la lezione di Lucchetti è chiara: "Non è solo l'amore ad unire le persone, ma anche ciò che resta quando questo non c'è più."

Nelle sale dal primo Ottobre. 


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Nel pomeriggio invece la Sezione Orizzonti è stata inaugurata da Mila, opera prima del regista greco Christos Nikou, che pare aver imparato la lezione del suo maestro Lanthinos, a cui chiaramente si ispira.

Il film è dedicato al funzionamento della memoria dell'essere umano, su come questa riesca ad essere selettiva scegliendo cosa voler ricordare e cosa invece resettare. Ma l'attenzione di Nikou è rivolta soprattutto all'influenza, sempre più pressante, che la tecnologia ha sulla nostra memoria: gli strumenti tecnologici che possediamo si sostituiscono ad essa archiviando informazioni e rendendo la nostra capacità di ricordo sempre più labile e instabile.

Il racconto parte da un tema molto attuale: una pandemia che procura amnesia cancellando tutti i ricordi degli uomini. Il protagonista Aris sceglie di affidarsi ad uno speciale programma che promette la costruzione di una nuova memoria, di nuovi ricordi. Così l'uomo trascorre le sue giornate svolgendo una serie di azioni col fine di creare nuove memorie e nella speranza di stimolare quelle ormai perdute. L'unico ricordo da cui trae conforto è il sapore delle mele (mila in greco). Questo esercizio strano lo svolge con l'ausilio di una macchina fotografica attraverso il cui obiettivo egli scruta il mondo, come la necessità di interporre un oggetto estraneo tra se ed una realtà che fa fatica a riconoscere, perchè non ricorda.

L'amnesia di Nikou è la metafora di una società di persone che vive ormai priva di una qualsiasi contatto, che dimentica fatti e persone con una facilità disarmante preda ormai della tecnologia che rende la vita più semplice, ma restituisce un'umanità più sola. Ma l'interrogativo che ci si pone è: siamo davvero solo ciò che ricordiamo? E' possibile vivere una vita decorosa vita pur non avendo memoria del passato?

Il film restituisce senz'altro un sentimento di pessimismo e questo pervade tutta la pellicola, amplificato dalla cupa fotografia. L'assenza di personaggi e quindi la mancanza di dialoghi rende la visione piuttosto complessa. La trama non offre alcun colpo di teatro e ben poche sono emozioni, bloccate nei silenzi del protagonista, per cui la proiezioni ne assai risulta rallentata. L'unico spiraglio di speranza è la possibilità di selezionare i ricordi, dimenticare ciò che vogliamo e vivere nuove storie per raccontarci un nuovo passato.


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A domani con Venezia 77, Giorno 2.